Di libri che vorresti non finissero mai…
Ci sono dei libri che si vorrebbe non finissero mai. Che è una considerazione banale ma assolutamente efficace per ridurre al piano emozionale quello che le parole, da sole, difficilmente potrebbero riassumere. Per questo non mi perdo in preamboli ma vi invito a scoprire con me i titoli che, negli ultimi giorni, hanno lasciato un segno. Decisamente forte.
Non lasciatevi ingannare dai continui richiami a una Elena Ferrante in salsa danese perché Tove Ditlevsen è tutt’altra cosa e il suo “Infanzia” (edito da Fazi, il primo libro di una trilogia attesissima) è un piccolo capolavoro assolutamente indipendente dalle storie di Lila e Lenù. Certo c’è una deliziosa protagonista, c’è una famiglia disfunzionale, un’amica del cuore dalla presenza invadente e una serie di interrogativi che hanno tutti a che fare con il futuro ma le similitudini finiscono qui. Perché, al netto del difficile percorso verso l’adolescenza narrato in prima persona dalla protagonista, il libro è decisamente spassoso grazie al sagace uso dell’ironia che fa l’autrice. Figlia di un mancato socialista spesso disoccupato e di una madre infelice che considera l’infanzia come una condanna e non riesce a comprenderla, la piccola Tove mostra da subito un’intelligenza feroce che è costretta a celare per non disturbare il rapporto già compromesso con i suoi. Tove si rifugia nella lettura e sogna di diventare poetessa ma le sue aspirazioni si scontrano con la realtà nella quale vive (“le femmine non possono fare le scrittrici” le urla il padre) ed è costretta a scrivere segretamente poesie in un quadernetto destinato a essere il suo lasciapassare per quella età adulta che lei tanto desidera.
“Quasi tutti gli adulti sostengono di avere avuto un’infanzia felice e magari ne sono davvero convinti, ma io non ci credo. Secondo me, sono semplicemente riusciti a dimenticarla”.
Il mondo dei grandi e quello dei bambini sono separati in maniera netta da una distanza incolmabile che rende difficile ogni punto di contatto, salvo qualche rara illuminazione che Tove può cogliere nei coetanei più smaliziati, come l’amica Ruth, che rappresenta tutto quello che lei vorrebbe essere ma non è.
Con un linguaggio semplice e disincantato, la scrittrice guida il lettore in un mondo duro, apparentemente addolcito dalla voce cristallina della protagonista, dai suoi desideri di fare esperienza, di uscire dal quartiere nel quale sembra ridursi tutta la sua vita sfidando una volta di più i perfidi adulti.
È bellissima l’onestà intellettuale ed emotiva che trabocca dalle pagine di un romanzo che, con la sua precisa analisi dei ruoli imposti dalla società e, a cascata, dalla famiglia, distilla un dolore che la lettura può ammorbidire ma con cui l’autrice sarà costretta a fare i conti sempre.
C’è sempre una famiglia al centro dell’affresco vivace e rumoroso in cui si muove “Serge”, l’ultimo romanzo di Yasmina Reza (edito da Adelphi), un capolavoro di scrittura fulminante e di dialoghi serrati che sarà impossibile non divorare. Il problema, poi, è che non vi verrà voglia di leggere nient’altro.
Il perché è tutto nella maestria della scrittrice francese nel rendere scoppiettante una serie di vicende di per sé tragiche che vedono protagonisti tre fratelli. Jean, la voce narrante cresciuto all’ombra del fratello maggiore Serge, un personaggio controverso ed egoriferito nella sua mediocrità, e della sorella minore, Nana, ex giovane di belle speranze naufragate in un matrimonio ridicolo. Loro sono il nucleo dei Popper, famiglia di ascendenze ebraiche e di discendenze allargate, ricca di contraddizioni e di compromessi forzatamente messi a tacere, che alla morte della madre decide di fare un rocambolesco viaggio ad Auschwitz. La drammaticità della destinazione e tutto il corollario di dolore che porta si scontrerà con le incomprensioni sedimentate tra i tre fratelli e si rivelerà esplosiva nel mandare all’aria i legami di sangue.
Del resto “Chi ha bisogno di una famiglia?”.
La Reza ha una capacità implacabile nel descrivere con leggerezza le bassezze degli esseri umani pur nella loro normalità portando i protagonisti del suo romanzo a essere reali, veri, presenti con un’empatia che non nasconde giudizi perché questi li lascia squisitamente al lettore. E lo fa con il potere delle parole, con l’analisi, a tratti neutra, di situazioni al limite del paradossale, con un’eleganza di penna con cui dissimula la meschinità che si nasconde dietro certi comportamenti e relazioni, mettendo in discussione le basi sulle quali si fonda il nostro tempo presente e, soprattutto, il suo continuo flirtare con il vuoto.
Spietata e scorretta, ma anche sincera e a tratti apocalittica, la Reza fa fagotto della morale (leggere, per esempio, la descrizione del campo di concentramento ridotto a una sorta di viaggio turistico) e dissacra i luoghi comuni con una straordinaria verve iconoclasta. Che fa sorridere, certamente, ma soprattutto pensare molto. Leggetelo.
Testo di Ursula Beretta
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