I cieli di Philadelphia
Ci sono alcuni libri di cui mi capita di pensare che avrei voluto scriverli io o che, perlomeno, avrei preso come ipotetico modello nel caso in cui avessi voluto scriverne uno.
Un preambolo cervellotico per giustificare la sensazione che mi ha provocato la lettura di “I Cieli di Philadelphia” di Liz Moore – NNEditore -, un romanzo talmente capace di sfiorare la perfezione nel suo genere che ho un solo consiglio: leggetelo.
Leggetelo se vi piacciono i noir, decisamente polizieschi, molto ben costruiti, che fanno dell’atmosfera di cui vivono un’immensa coperta in grado di avvolgere tutto: personaggi, scenari, vicende e pure sentimenti. Se l’impressione, a volte, pare allontanare dal contesto iniziale, non preoccupatevi, fa tutto parte della cornice: ogni cosa narrata torna da dove è nata e, nella fattispecie, a quello che i francesi chiamerebbero il bout del romanzo.
Leggete, quindi, I cieli di Philadelphia se amate le vicende inaspettate: la lettura pare trasportarvi in una direzione, ma ricordatevi che si tratta di fiction nel più autentico senso del termine, andate oltre e avrete delle sorprese.
Leggetelo se la provincia americana, con il suo apparente piattume, con la linearità delle sue declinazioni, con la prevedibile personalità dei suoi abitanti vi attira e, al contempo, vi respinge: non siamo in un libro di Anne Tyler, fate caso solo a questo.
E leggetelo, proprio per aver chiamato in causa la scrittrice americana maestra nel tratteggiare i suoi personaggi femminili, perché le donne di questo romanzo sono complesse nella loro apparente semplicità, e nascondono segreti e drammi e un carattere talmente forte che spesso rischia di mangiarsele. Ma loro, al contrario delle borghesi di Baltimora tanto amate dalla Taylor, coltivano delle zone buie nelle quali è necessario sguazzare prima di poterne venire fuori. O, per lo meno, averne in cambio una parvenza di normalità.
Leggetelo, sempre in relazione alla questione femminile, perché la protagonista del romanzo, Michaela – Mickey- Fiztpatrick è un personaggio talmente complicato e a tal punto respingente che, una volta che avrete cominciato a conoscerla, sarà difficile abbandonarla.
Cercavo in tutti i modi di ignorare il rumore di fondo che accompagnava le mie giornate, il rintocco di una campana simile a un avvertimento. Non le davo retta. Volevo che tutto restasse com’era. Avevo più paura della verità che delle bugie. Le bugie erano statiche. Le bugie mi davano pace. Le bugie mi rendevano felice.
Mickey è un agente della polizia di Philadelphia, in pattuglia nel sordido quartiere di Kensington, dov’è nata e cresciuta e dove tuttora vive con il figlio Thomas, un bambino di 4 anni sveglio e tenero, centro naturale della sua vita. Reati e prostituzione, soprattutto droga, sono i tratti caratteristici di una parte della città americana grigia, capace di amplificare, nelle brutture che la definiscono, le vicende umane dei suoi abitanti. Altrettanto cupe, sfuggenti e, soprattutto, dolenti.
Ma gli affetti famigliari possono e devono essere un antidoto a tutto questo anche per una tosta come la protagonista del romanzo che, orfana di genitori, cresciuta da una nonna anaffettiva con una sorella diametralmente opposta a lei, Kacey, vive nella costante preoccupazione di vedere sgretolarsi quello che ha messo insieme e, soprattutto, di perdere le persone che ama. Il suo pensiero è sempre alla sorella, che vive per strada, vittima della combo micidiale droga+prostituzione: un pensiero che si fa ancora più dominante quando nel quartiere un killer silente comincia a uccidere le prostitute più giovani e Kacey, improvvisamente, scompare.
La ricerca della sorella diventa, da questo momento, la preoccupazione dominante della poliziotta: una ricerca pulsante, sostenuta da una narrazione che intreccia il presente e il passato per raccontare tutti i chiaroscuri di una vita, quella di Mickey, che sembra lineare e definita a priori e che, invece, è il naturale contrappunto di una città malata e crudele. C’è spazio per pericoli, bugie, mezze verità che riportano alla luce una memoria fatta di scelte dolorose, di lacrime messe a tacere, di altre scomparse, mai piante, mai pienamente accettate, di un passato doloroso dal quale è difficile affrancarsi forse perché così capace di tornare prepotentemente all’attacco.
Il risultato sono ferite che non smettono di pulsare, cicatrici che, sebbene nascoste, fanno a gara per sembrare sempre più luminose e identitarie; sono verità scomode, che obbligano gli esseri umani a fare i conti con quegli sbagli che sembravano sepolti, dimenticati e che invece sono sempre lì, vibranti e invadenti, bravissimi a distruggere.
La scrittura essenziale e pulita di Liz Moore fa esplodere una storia frastagliata e pesante, in cui il dolore non è mai fine a se stesso ma diventa uno specchio silente, che restituisce l’immagine di un’umanità in divenire che vorrebbe continuare a credere nella parola riscatto e che, forse inconsciamente, continua a farlo.
Testo di Ursula Beretta
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