Il mio anno di riposo e oblio
Ci sono i libri e poi c’è ‘Il mio anno di riposo e oblio’ di Ottessa Moshfegh, edito da Feltrinelli, che il sonno me l’ha fatto perdere costringendomi a divorare le sue oltre 200 pagine e a immergermi in un’atmosfera distopica e accattivante al contempo.
Osannato negli Stati Uniti, Paese in cui l’autrice è celebre soprattutto per i suoi racconti, il romanzo parte da un assunto molto semplice, ovvero il presunto potere salvifico di un sonno indotto artificialmente, possibile rimedio per cancellare ogni emozione e condurre a una ipotetica rinascita. Di questa magia è convinta la giovane 24enne newyorkese, orfana di entrambi i genitori, ricca ex gallerista dell’Upper East Side, di cui non si conosce il nome ma solo le caratteristiche fisiche – è bionda, alta e magra, una vera wasp insomma – che decide di portare a compimento una sorta di rigenerazione interiore e biologica con la complicità di un sonno perenne causato da dosi industriali di ansiolitici e narcotici.
Un modo come un altro per dare fondo a un’infelicità di base e a un senso di noia per la vita presente da cui la ragazza non riesce ad uscire: la soluzione può essere una sola, dimenticare artificialmente il passato e prepararsi per un futuro diverso. Dormendo.
Finalmente stavo facendo qualcosa che aveva davvero senso. Dormire mi sembrava produttivo, come se qualcosa venisse risolto. Sapevo in fondo al cuore – e questa era forse l’unica cosa che sapevo in quel periodo – che se fossi riuscita a dormire abbastanza sarei stata bene. Mi sarei sentita rinata, nuova. Avrei potuto diventare un’altra persona, ogni cellula rigenerata tante volte così che quelle vecchie sarebbero state solo memorie sfocate, distanti. La mia vita passata sarebbe stata solo un sogno, e avrei potuto ricominciare senza rimpianti, rafforzata dalla beatitudine e dalla serenità accumulata nel mio anno di riposo e oblio.
Il percorso per arrivare al letargo coatto è costruito in maniera cadenzata, costellato non solo dall’abuso di sostanze chimiche in un crescendo di momenti di dormiveglia stralunati ma soprattutto da personaggi al limite del grottesco che interferiscono e sollecitano al contempo il sonnambulismo della protagonista: dall’assurda psichiatra che le prescrive i farmaci a un ex fidanzato sgradevole ed erotomane fino ad arrivare alla migliore amica bulimica e logorroica.
Un carosello rocambolesco e assurdo in cui tutto questo accade – o non accade? Lo scoprirete solo leggendo – a causa del rapporto disfunzionale che la protagonista ha con il mondo, con il sesso, con le relazioni e con i farmaci stessi, originato dal suo imprinting asettico e privo di amore. Per uscirne – e per sopravvivere – è necessario non attraversare il dolore ma farlo sparire totalmente. Con il sonno, ovviamente.
Questa era la bellezza del sonno – la realtà si allontanava e appariva alla mia mente con la casualità di un film o di un sogno.
Un diario egoriferito, dolente, intervallato da accenti satirici e parodistici che delineano un ritratto dell’alta società newyorkese degli anni 2000 che fa il verso ai primi romanzi di Bret Easton Ellis in cui apparenze, velleità artistiche e superficialità diventano il secondo motivo della ricerca utopica di un’atarassia forzata e capace di condurre alla salvezza.
Il mio anno di riposo e di oblio è una sfida letteraria notevole: come raccontare l’insulsa vita interiore di una personalità narcisistica e nemmeno troppo interessante? Vi invito a scoprirlo, con l’ausilio della prosa fluida, disadorna e asciutta della Moshfegh, a metà strada tra “American Psyco” del già citato Easton Ellis e “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion, che si perde tra un ritratto poco allettante di una New York dimessa e il catalogo preciso delle più svariate droghe sintetiche, reali o di fantasia che siano.
Paradossale, certo, ma da leggere assolutamente.
Testo di Ursula Beretta
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