Il bello di stare a casa malati
Quando ero piccola, stare a casa con la febbre era una festa. A casa mia c’erano dei riti che si rinnovavano ogni volta che uno di noi tre si ammalava. Si poteva stare in pigiama a oltranza, rimanere a letto fino a ora di pranzo a leggere o ad attaccare figurine nell’album Panini; mamma era prodiga di attenzioni di ogni tipo e, sempre per rispettare un rito, ci comprava una cosa normalmente bandita, l’aranciata: la scusa era che, quando avevi la febbre, l’acqua lasciava in bocca un saporaccio che solo l’aranciata riusciva a mitigare un po’ ma il motivo vero era rendere i giorni di reclusione forzata un po’ speciali. Mi ricordo ancora la bottiglietta di San Pellegrino a forma di ampolla, non so neanche se la producano più. Ognuno di noi sperava che quei giorni durassero per sempre. Nella mia nuova vita da donna libera che amministra finalmente il suo tempo la cosa che apprezzo di più è la possibilità di rinnovare coi miei figli più o meno i riti della mia infanzia quando si stava male: stare insieme appiccicati, viziare i bambini comprandogli piccole cose inutili che normalmente non compro, tipo i coccodrilli di gomma che vendono in edicola oppure il giornalino super kitsch di Barbie che dà in omaggio il burrocacao alla pesca. Quando lavoravo full time il fatto che i figli si ammalassero – magari simultaneamente – era una specie di maledizione che andava scongiurata con tutte le forze, una tragedia logistica da gestire in tempo zero. L’idea di dover chiedere permessi, magari in periodi caldi, era il mio spauracchio: odiavo quello sguardo da “vabbè, se proprio devi” che compariva sulla faccia dei capi. Ora invece, lungi da me dire che sia divertente e idilliaco quando i figli sono malati ma essere lì per loro, full time, e gestire questo tipo di imprevisti senza dover chiedere scusa, permesso e per favore, non ha prezzo. Se sono inappetenti li invoglio a mangiare comprando la pizza di Spontini, quella alta con tanta mozzarella. Mi metto persino a fare i collage o i giochi di ruolo, che ho scoperto di odiare ancora più di portare i figli ai giardinetti.
In questo periodo per esempio Olli è nel mood “facciamo che io sono la mamma e tu sei la piccola”: niente, non è per me, interpretare “la piccola” per me è una tortura. Per farmelo andare giù rilancio proponendo “facciamo che tu sei la parrucchiera e io la cliente e tu mi fai la treccia”: sentirla che traffica coi miei capelli mi rilassa come un massaggio ayurvedico, e almeno non sono costretta ad attenermi a un vero e proprio copione con dialoghi e tutto il resto. Se la febbre è scesa può capitare di fare piccole deviazioni tornando a casa dopo la visita dal dottore, tipo una sosta in pasticceria o un giro all’orto botanico, che è un buon compromesso tra la voglia di scorrazzare nel verde dei bambini e il mio odio per le giostre, gli scivoli e le altalene.
Ecco, ora che posso farlo, voglio che da qui a quando saranno maggiorenni ogni periodo di malattia dei figli sia un momento memorabile, per loro e per me, come i giorni appena trascorsi con Olli a casa con la febbre.
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