La città delle ragazze
Brioso, lussurioso, pieno di vita. E ancora luminoso, intenso, delicatamente onirico. Potrei continuare con gli aggettivi per descrivere l’ultimo romanzo di Elizabeth Gilbert, “La città delle ragazze”, edito da Rizzoli, ma la storia, molto cinematografica e profondamente newyorkese (deve essere il mio leitmotiv di quest’anno), merita anche delle parole.
Un libro che comincia con una lettera, quella che l’ultranovantenne Vivian Morris scrive a una certa Angela – di cui l’identità si costruirà pagina dopo pagina – per raccontarle tutta la sua vita, e si dispiega come un memorabile affresco di storia vissuta dagli anni ’40 ai giorni nostri, il racconto di un’educazione sentimentale poco convenzionale e all’insegna della libertà, di un femminismo ante litteram e di molto, moltissimo amore. E su tutto un’unica grande cornice, quella di una New York che cresce, cambia, vive come la protagonista, in un immenso parco giochi che, dagli spettacoli teatrali, con i suoi costumi luccicanti e le feste da sogno a corollario, si trasforma in una città ferita dalla guerra per poi tornare a essere ancora un lasciapassare per la felicità.
Ed è a New York che arriva Vivian, poco più che adolescente ma con le idee chiare: lei, ricca rampolla di una famiglia autenticamente wasp, si annoia al college, non sogna il marito giusto come la maggior parte delle sue amiche, sa cucire e assumere arie da signora infastidita. Quale posto migliore per riflettere sul suo comportamento indisciplinato che trascorrere del tempo con l’amata zia Peg che gestisce, nella grande mela, la Lily Playhouse, un teatro di periferia, animato da vaudeville e commediole insulse, abitato da ballerine sconclusionate e da soubrette al limite della decenza? La voglia di divertirsi e di bersi – letteralmente – la vita senza perdersi nulla diventa il fil rouge di una narrazione scoppiettante e ricca di gioia: le pagine seguono il ritmo – anche fuori dal teatro – di quella ricerca di piacere, di godimento e di ansia di non perdersi nulla che è tipica dei giovani di ogni momento storico. È un impeto buono e spesso un po’ sboccato che guida l’educazione alla vita della giovane provinciale che, animata da un bell’aspetto e da un carattere anticonformista, si adegua subito all’incandescenza della vita cittadina e segue le sue inclinazioni diventando in poco tempo non solo il centro di uno spassoso gruppetto al femminile, ma anche l’anima sartoriale del teatro grazie alla sua capacità di creare costumi sfavillanti investendo su qualcosa che ama davvero e che sarà destinato a rimanere una costante nella sua esistenza.
“La gente ti dirà che non bisogna sprecare la propria giovinezza a folleggiare ma si sbaglia. La giovinezza è un tesoro insostituibile, e l’unica cosa degna da fare con un tesoro insostituibile è sperperarlo. Perciò abbi rispetto della tua giovinezza, Vivien, e spendila a piene mani”
Tra locali e bar notturni, piste da ballo e amori scandalosi, arrivano gli anni della guerra con il loro carico di malinconia e di perdita, ma rimane invariata la capacità di trasformarsi della ragazza che, come New York, continua a tenere viva la voglia di costruire, di creare, di divertirsi e di adeguarsi a quello che, inevitabilmente, muta.
“La città delle ragazze” è un libro eclettico e divertente, compagno perfetto per chi ama i romanzi di trasformazione e non vede l’ora di indossare un bel paio di scarpette da ballo per lasciarsi trascinare dal vortice di un percorso di formazione irto di ostacoli e di amori passionali e sfioriti nell’arco di una serata, di scandali piccanti e di un’inebriante allegria che pare non debba mai avere fine. È la storia di una donna, di tante donne, che non hanno bisogno di uomini per imporsi, che portano sulla loro pelle i dogmi di un femminismo ancora embrionale ma la cui forza, l’indipendenza, l’ambizione, la sicurezza in sé e il coraggio sono atout fondamentali e guadagnati con il sorriso sulle labbra.
Perché “poi a un certo punto una donna si stanca di vergognarsi sempre di sé. Ed è allora che diventa libera di essere ciò che è davvero”.
Testo di Ursula Beretta
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