La spinta
Che fare il genitore sia il mestiere più difficile del mondo è cosa assodata. Ma farlo portandosi dietro il bagaglio marcio di una storia famigliare balorda e fuori dagli schemi è ancora più complesso. Avete presente la questione delle colpe dei padri che ricadono sui figli?
Nel caso de “La spinta”, il romanzo di Ashley Audrain edito da Rizzoli, gli errori sono squisitamente quelli delle madri perché le loro controparti maschili rimangono sempre sullo sfondo, pedine incapaci di prendere una posizione che sia in qualche modo risolutiva oppure ciechi protagonisti di vicende in cui forse è più comodo tenere gli occhi rigorosamente chiusi.
Ma andiamo con ordine. “La spinta” è un thriller, di quelli che rendono velocemente la notte giorno perchè è impossibile staccarsi dalle sue pagine che un po’ perseguitano anche chi pensa di avere a che fare con il solito racconto drammatico di incomprensioni generazionali. Niente di più falso.
Quando ti nasce un figlio ti raccontano del riflesso più naturale del mondo, quello dell’ossitocina: l’ormone della maternità. Produce il latte e lo aiuta a scorrere, a riempire i dotti, a riversarsi nella bocca del bambino. Si mette all’opera quando la madre sa che dovrà allattare. Quando annusa o tocca o vede il bambino.
Forte di una narrazione empatica e dettagliata, la vita di Blythe, la protagonista del libro, viene scandagliata alla ricerca del perché, ora, lei sia costretta a guardare di nascosto la figlia e l’ex marito dai vetri della loro nuova casa immersi in una quotidianità di cui lei non fa parte.
Ma che cos’è successo perché si arrivasse a questo?
Voleva solo essere felice, Blythe, e diventare una buona moglie e un’ottima madre, diversamente da chi, negli anni, l’ha preceduta e messa al mondo. E ha fatto di tutto: ha sopportato il bagaglio solitario della maternità, con annessi e connessi non proprio da cartolina; si è dimostrata una compagna affidabile e amorosa, sempre vicina al suo uomo; ha fatto fagotto di ricordi dolorosi che certo non le avrebbero reso onore ma nei quali il lettore è costretto a tornare per cercare una possibile spiegazione allo scenario poco idilliaco nel quale la protagonista si ritrova.
Che ha a che fare con la memoria, certo, e con una figlia, quella di Blythe, Violet, che pare destinata a raccogliere i demoni del passato. Che cosa si tramanda di generazione in generazione? Possiamo davvero scegliere chi siamo o ciò che è stato vissuto dalle nostre nonne prima e dalle nostre madri poi ci determina senza lasciare scampo? Che cosa significa, alla luce di evidenti tare di sangue, essere una brava moglie e diventare una brava madre?
Una scrittura paranoica sostiene il romanzo d’esordio di una scrittrice che ha del vero talento nel coinvolgere il lettore con una trama ricca di segreti e terribilmente subdola, che merita, per quanto mi riguarda, di avere un sequel.
Testo di Ursula Beretta
Discussion about this post