La valle oscura

Cinque anni nella Silicon Valley e ritorno. Ma non anni qualsiasi. E neppure un ritorno qualsiasi. Nel momento più intenso della rivoluzione digitale che ha reso San Francisco il centro del mondo – e non solo di quello digitale –, una ragazza della East Coast imbevuta di sogni letterari e di dubbi su quello che sarà il suo futuro lavorativo, sceglie di scommettere nel new tech e di cambiare vita.

“La Valle Oscura” di Anna Wiener (edito da Adelphi) è un ibrido a metà strada tra il memoir e il reportage vissuto e raccontato in prima persona, dedicato a esplorare la cultura delle startup nel loro momento di massima esplosione, tra l’ambizione di cambiare volto al mondo e all’economia e le prime, potenti, contraddizioni che faranno scoppiare una bolla apparentemente onnipotente.

Quando arrivai a San Francisco, con un nuovo taglio di capelli e due borsoni consumati, mi sentivo intrepida e pioneristica. Non sapevo che migliaia di persone si erano già dirette a ovest nel tentativo di realizzare il nuovo sogno americano, lo avevano fatto per anni. Io ero, secondo svariati criteri, in ritardo.

È il 2013 e la protagonista, dopo una laurea in materie umanistiche e una serie di lavori sottopagati nell’editoria newyorkese, si trasferisce in California scommettendo, come altri prima di lei, sulla rivoluzione digitale che vede al centro lo strapotere dei big data “di cui non tutti sapevano perché ne avevano bisogno, ma tutti sapevano di averne bisogno”. Ecco servito quell’ universo di cui tutti parlano ma che nessuno conosce realmente salvo gli uomini e le donne (ma queste ultime meno) che ci lavorano, credendo fermamente nel potere taumaturgico dei big data, indossando magliette con emoji di unicorni e centellinando ciotole di frutta secca.

Ma io ero un’idealista. Pensavo che potessimo fare di meglio.

Una sorta di educazione sentimentale al contrario in cui l’amore c’è ma conta poco di fronte alla fascinazione per una realtà nuova e superveloce, in cui ragazzini appena maggiorenni guadagnano cifre astronomiche e combattono con intraprendenza e aggressività contro quello che c’era stato e che deve cambiare. Una rivoluzione che nasce dalla tastiera e che viene fatta con le armi dell’innovazione e in modalità God Mode, cioè come Dio davanti al pannello di controllo di dati con i quali si controlla il mondo, in nome di una nuova divinità, il software.

Per molto tempo ho covato l’idea che all’origine dell’ambizione imprenditoriale ci fosse un desiderio struggente, una dimensione tenera che nessuno voleva riconoscere. Che sotto i corsi di yoga in ufficio, le app di meditazione, lo stoicismo selettivo e la leadership di pensiero circolare si celasse qualche aspetto spirituale. Come altro spiegare i rituali e le adunanze, le conferenze e le gite fuori sede, gli incontri di risveglio aziendale, la fedeltà e il fanatismo che si osservavano nelle startup – il Vangelo del lavoro, modernizzato e ottimizzato? Io ero devota all’idea di vulnerabilità”.

Lo sguardo puro di outsider della Wiener e la sua malcelata innocenza servono, senza bisogno di giudizi o di commenti affrettati, a tracciare un affresco culturale e generazionale della Silicon Valley, in cui si ritrova anche una buona fetta della nostra realtà quotidiana in cui il digitale – con tutto quello che comporta – ha il ruolo da protagonista. Un mondo nel quale, a un certo punto, ci si deve ritrovare forzatamente mettendo a tacere ogni emotività. Oppure che si deve abbandonare facendo un logout definitivo.

Un libro delizioso e inquietante, ma comunque da leggere.

Testo di Ursula Beretta

 

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