L’acqua del lago non è mai dolce

Non è facile leggere “L’acqua del lago non è mai dolce”, il romanzo di Giulia Caminito edito da Bompiani. Perché è un libro talmente denso e avvolgente, intriso di sentimenti primordiali e forti, che si incastra addosso, zoppicando delicatamente anche nei momenti meno indicati, quando si abbassa la guardia, mentre si pensa ad altro, esplode inatteso il ricordo di quanto letto. Che sa di rabbia, di odio, di desiderio di riscatto, di una realtà purulenta che attrae e respinge al contempo, limacciosa esattamente come acqua di lago che fa da cornice a una storia in cui i buoni sentimenti sembrano essere appannaggio di altri, i più fortunati. Quelli che non sono costretti a vivere in uno scantinato incastrato tra siringhe abbandonate ed erbacce come Gaia, la protagonista del romanzo a cui viene affidata la disamina feroce della realtà nella quale, senza averlo chiesto, si trova costretta a stare con i tre fratelli, il padre invalido e la madre Antonia. E da cui pare impossibile scappare.

Antonia che combatte, che si danna, che cerca il meglio per la famiglia ma lo trasmette, come una cosa fortuita e capitata per caso, mentre lo strappa con i denti, giudice e carnefice implacabile agli occhi di una figlia la cui missione è quella di allontanarsi il più possibile da lei.

La mia famiglia è il mio anestetico, contro di loro non so reagire

nemmeno quando da Roma Gaia si trasferisce sul lago di Bracciano e qui lascia esplodere la sua adolescenza complicata. Ai margini di tutto perché lei e la sua stirpe sembrano raccogliere l’eredità dei vinti di Verghiana memoria, solo un po’ più arrabbiata, incazzosa, messaggeri di una voglia di rivalsa che non si trasforma in vittoria luminosa ma che rimane semplicemente rancore.

Gaia si trova tra coetanei che la deridono per il suo aspetto fisico, che la bullizzano perché la miseria della sua condizione viene loro sbattuta in faccia come una bandiera, per quella famiglia che lei tiene gelosamente nascosta per la vergogna che le provoca. Il risentimento, covato in silenzio, diventa pura violenza, l’unico antidoto possibile per ristabilire una giustizia personale che fa a meno di divinità superiori o di dogmi preconfezionati perché lo status quo sembra essere destinato a rimanere sempre tale. Una ragazza sola contro tutto il mondo, una ragazza che si ribella mettendo in scena un conflitto senza fine per far valere i suoi diritti, commettendo anche crimini gravi, distruggendo dalle fondamenta quello che la fa male, svelandosi, vittima e carnefice insieme, essenzialmente cattiva, ferocemente sola. Perché se la vita si accanisce, non esistono soluzioni, bisogna prenderla a pugni.

“L’acqua del lago non è mai dolce” è un romanzo poderoso, costruito sulla strategia che i più deboli mettono in piedi per sopravvivere e incentrato su figure femminili che non si dimenticano, tanto le loro personalità complesse si scontrano e si tormentano continuamente. Antonia, la madre, protegge ma opprime; non ammette la disobbedienza dei suoi figli e li rende prigionieri di privazioni e di durezze dalle quali sembrano non avere scampo. Gaia, frutto di un ménage famigliare malato, è destinata a diventare una donna maligna, livida e vendicativa, alla quale l’acqua del lago sembra fare da contrappunto. Un’acqua che non è sinonimo di vita, ma è sporca, inquieta, attrae e repelle al contempo, diventa confidente e spettatrice silente delle vicende raccontate da una scrittura graffiante e spigolosa, che travolge come una corrente imbizzarrita a tal punto da non lasciare scampo.

Giulia Caminito ha scritto un romanzo autenticamente doloroso, in cui le esistenze sospese sembrano incamminarsi verso un futuro poco roseo, in cui viene travolta ogni convenzione sociale e dove anche il desiderio di razionalità, affidato a palpitanti ore di studio, pare destinato a soccombere. È tutto incandescente, insicuro, abbozzato. Resta solo il desiderio di fuga.

“Nostra madre pare l’eroina di un fumetto, Anna Magnani al cinema, lei che baccaglia, lei che non si arrende, lei che li fa stare tutti zitti. Siamo lì, nel corridoio che porta alle stanze, io e Mariano a braghe corte e polpacci rigidi, a fissare negli occhi la nostra paura: non essere come Antonia, non bastare mai, non vincere nessuna battaglia.”

Testo di Ursula Beretta

 

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