Le imperfette
“Non esistono i tradimenti, esistono gli spazi ed è tra quelli che s’infilano le persone”
Basterebbe solo questo assunto – vero? Opinabile? Tristemente feroce? – per capire che si sta per entrare in un terreno minato, in cui gli scampoli di verità sono orme da seguire che si conficcano nello stomaco e li restano fino all’epilogo della vicenda.
E forse anche oltre.
“Le Imperfette” di Federica De Paolis – edito da DeA Planeta Libri – è un libro in cui la tranquillità è una chimera: sembra tutto semplice, perfettamente ordinato, nelle mani di personaggi apparentemente stereotipati – la moglie infelice e traditrice, il marito fedifrago e arrivista, il padre che non si rassegna alla vecchiaia, l’amante subdola e bellissima – e invece è tutto un divenire.
Un divenire che ha inizio dall’incipit stesso della storia: un inizio che coincide con la fine, in cui i personaggi, stremati dal destino, sono diventati complici stessi del flusso balordo della vita che si diverte a scompigliare piani e capelli impendendo di coltivare l’immobilità. È qui che esplode fin da subito il dolore di Anna – la madre e moglie di cui sopra – persa nella neve, alla ricerca spasmodica dei figli scomparsi.
Ma com’è potuto succedere che la donna rassegnata a una piatta e dolente esistenza, interrotta solo da qualche carezza lussuriosa con l’amante spagnolo, si ritrovi ad affrontare l’incubo peggiore di ogni genitore?
È necessario tornare indietro, a quando Anna è poco di più che una bella statuina, cresciuta dal padre vedovo nell’agiatezza borghese di cui conosce poco o nulla, garantita dalla clinica privata di proprietà della sua famiglia in cui le donne imperfette cercano di colmare le loro lacune fisiche a colpi di seni rifatti e di rughe spianate.
“(…) tutte le donne erano imperfette, tutte erano in cerca di qualcosa che le completasse. E per il padre di Anna il discorso non si limitava alla bellezza: era un’inquietudine dell’anima che portava le donne a cercare di migliorarsi, come se la condizione femminile fosse votata a una ricerca perpetua, una spinta costante”
Una prigione dorata, nella quale lei si muove boccheggiando dopo la nascita della seconda figlia, rinchiusa da un marito che sembra replicare nella professione di chirurgo e nei modi le gesta dell’amato padre “perché il sentimento edipico in Anna era fondante, un muscolo involontario che l’aveva indirizzata alla vita”, e nei confronti del quale lei prova solo una sterile indifferenza.
Da quello spazio asettico Anna trova una via di fuga grazie agli amplessi con Javier, padre di una compagna d’asilo del figlio, al quale concede mattine di sesso frettoloso e colpevole senza nemmeno sapere come sia stato possibile arrivare a quel punto.
Una remissività senza futuro che viene interrotta proprio da quell’imperfezione che non è un esclusivo appannaggio femminile ma che investe tutti indistintamente, padri e mariti, figli e amanti, lavoro e sentimenti. E così quando la paura di uno scandalo causato da una leggerezza (involontaria? Studiata a tavolino?) chirurgica si somma alle bizze di esseri umani che rifuggono le caselle nelle quali dovrebbero essere rinchiusi, tutto implode.
È la tragedia della vita, naturalmente imperfetta e per questo affascinante.
Federica De Paolis ha scritto un libro bellissimo, in cui paura e sentimento vanno a braccetto. E lo fanno beandosi di uno stile essenziale, scarno, preciso nell’assecondare i turbamenti della protagonista che vengono portati in primo piano in maniera quasi impercettibile e a tratti attutita. Un romanzo che si fa leggere avviluppandosi alla realtà ma che rifugge morali semplicistiche perché, alla fine, conta una cosa sola, accettare l’imperfezione e la fallibilità per potere realmente – e pienamente-vivere.
Testo di Ursula Beretta
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