#MyMomsAboutTown: Federica

Mi piace un sacco ascoltare le storie degli italiani che vivono all’estero con le loro famiglie, mi piace sapere delle differenze culturali, delle abitudini diverse e di come sono riusciti a integrarsi. Federica, qualche anno fa si è trasferita a Singapore con marito e bambino e io morivo dalla curiosità di saperne di più. Se aggiungiamo poi che la ragazza è ironica e spiritosa come piace a me…

Federica e Giulio MomsabouttownFederica, 41 anni mamma di Giulio, 4 anni e mezzo

Federica, come ci sei finita a Singapore da Genova?

Io non ho mai voluto fare la expat, non ero una di quelle eroiche giovani che a dieci anni tengono appesa la mappa dell’universo in camera sognando di arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima. Io mi accontentavo del poster di Mimi Haiuhara con le catene ai polsi. A Genova stavo benissimo, vivevo attaccata ai miei e litigavo con gli agenti immobiliari perche’- quando cercavamo casa- si ostinavano a farmi vedere appartamenti a piu’ di 500 metri da mamma e papà. Poi un giorno all’expat-marito non ancora expat è stato proposto (in realtà lui lo desiderava da tempo) un cosiddetto International Assignment a Kuwait City, proprio mentre io aspettavo Giulio il Pidocchio. Io ho accettato perché ero convinta che non saremmo mai partiti, poi non si sa come mi sono trovata con un biglietto di sola andata Genova-Roma-Doha-Kuwait e ho capito che stavamo facendo sul serio. Ho trascorso lì due anni felici dicendo a tutti: io sono expat a termine, tra due anni me ne torno a casetta mia. Infatti poi all’expat-marito è stato proposto un altro biennio a Singapore e io – non so neppure perché – ho risposto andiamo! andiamo! Nonna ha avuto un mezzo ictus al telefono quando gliel’ho comunicato…Bè, lo scorso dicembre abbiamo rinnovato il contratto qui, dove staremo fino all’autunno 2016. Insomma da un paio di annetti fuori casa siamo a sei anni di espatrio, direi che non e’ male per una cozza da scoglio quale sono sempre stata.

Come è stato l’impatto con una nuova cultura così diversa dalla tua? Ti sei ambientata facilmente?

L’impatto è stato pessimo. Credo di aver peccato di superbia. Sono arrivata a Singapore pensando: dopo due anni tra le sabbie del deserto e in mezzo ai Kuwaiti ambientarsi qui sarà un giochino da ragazzi. Sticazzi. Ho adottato tutte le tecniche da expat navigata: iscriversi a qualsiasi social network locale e frequentare ogni tipo di gruppo che comprendesse più di due persone. Io e il piccolo Pidocchio duenne abbiamo iniziato un girotondo isterico comprensivo di ginnastica mamma-bimbo, musica per toddlers, amichetti dei parchi, amichetti dei musei, amichetti dello zoo, gruppetto parrocchiale, art and craft (tira fuori il Michelangelo che si annida in tuo figlio) eccetera eccetera. Onestamente tutto pressoché inutile per due motivi: primo, a queste attività le piccole creature vengono accompagnate, nel 90% dei casi, dalle helper, che alla madame bianca, quale io qui sono considerata, neppure rivolgono la parola; secondo, le poche madri incontrate il primo anno sinceramente si sono rivelate poco socievoli. in Kuwait appena vedevi un occidentale ti scambiavi il numero di telefono e il giorno dopo eri a casa sua a prendere il caffè. Qui l’impressione è che i gruppi ci siano, ma molto chiusi, per cui alla fine incontri tanta gente ma alla fine spesso non rivedi nessuno. Solo ora posso dire di essermi ambientata, ho impiegato giusto due anni e mezzo a fare quello che in Kuwait avevo realizzato in due mesi e mezzo.

Il tuo bambino come ha vissuto il cambiamento?

Direi sempre attaccato ad una tetta. Quando abbiamo lasciato Genova direzione Kuwait, Giulio aveva cinque mesi, poppava come un pazzo, in aereo era estremamente a suo agio e non si è accorto di nulla. Abbiamo iniziato quasi subito a frequentare amiche italiane (le mitiche Drusilla, Mimma e Manu – in ordine di comparsa nella nostra vita) e amiche straniere, tutte con bimbi più o meno della stessa età. Lui si divertiva, si ammalava un sacco e io imparavo l’inglese. Nella transizione Kuwait-Singapore Giulio aveva due anni, continuava a poppare e onestamente credo non abbia sentito la differenza. Un po’ perché ancora piccolo – del Kuwait o degli amici di lì non ricorda nulla quando gli mostro le foto – un po’ perché noi ci siamo sempre mossi in gruppo in tutte le nostre transumanze: il concetto che l’expat-marito parta da solo a spianarci il terreno e poi noi lo raggiungiamo in un secondo tempo per noi è inaccettabile, il massimo della separazione tollerata sono le tre settimane estive che viviamo in modo piuttosto melodrammatico. Credo sarà più difficile quando andremo via di qui, lui ormai dice “io vivo a Singa nel mio palazzo bianco”. Genova è considerata come casa dei nonni.

E’ facile integrarsi con i locali?

Con i locali semplicemente non ci si integra, si convive in un’atmosfera di ovattata educazione e cortesia, ma loro non saranno mai tuoi amici, tu sei il bizzarro europeo espatriato di passaggio che tra un paio d’anni leverà le tende. Forse è colpa mia, ma a volte mi pare che il gap culturale sia difficilmente colmabile. Io ho solo un’amica singaporiana, che però ha sposato uno scozzese e viaggiato un sacco, per cui non so se valga. Quando siamo arrivati nel nostro palazzo siamo andati a presentarci subito ai nostri vicini, che ricordo ci hanno guardato con la stessa espressione di Richard Dreyfuss quando gli alieni scendono dall’astronave in Incontri ravvicinati del terzo tipo.

A Genova facevi il medico. Ora immagino tu faccia la mamma-casalinga. Come ti senti nel ruolo di “angelo del focolare”? Ti manca il tuo lavoro? Hai provato a cercarne uno? In generale è semplice per un expat trovare un lavoro a Singapore?

Ho scandalizzato amici, parenti e conoscenti rispondendo a questa domanda – una delle più gettonate insieme alla celeberrima “non ti annoi?”- che no, il mio lavoro non mi manca. A Genova ero medico internista in Pronto Soccorso. Per arrivare lì ho fatto sei anni di medicina, cinque di specializzazione in medicina interna, tre anni di dottorato e due di gavetta in pronto soccorso a La Spezia. In sedici anni di studio matto e disperatissimo mi sono probabilmente bruciata il cervello. Per carità, mi è sempre piaciuto quello che facevo, anche se era molto stressante sia da un punto di vista fisico sia emotivo. Ora sono felice, mi ritengo una privilegiata a poter stare con il mio Pidocchio in questi suoi primi anni di vita, che sono volati velocissimi e che nessuno ti restituirà più. Non ho mai pensato a cercarmi un lavoro come medico qui, un po’ perché troppo complesso – la laurea in Medicina è riconosciuta a Singapore solo se conseguita in determinate facoltà italiane di cui ovviamente Genova non fa parte – un po’ perché qualcosa di totalizzante e non facilmente riducibile ad un’attività part-time: per me qui, in assenza di nonni, significherebbe crearsi un giro di helper e baby sitter di cui in questo momento faccio volentieri a meno.

C’e’ qualcosa a cui non riesci ad abituarti in questa città?

Non mi abituerò mai al concetto di living-in helper, ossia il fatto che qui tutti, ma dico proprio tutti, hanno una signora filippina, indonesiana, malese oppure che viene da Saturno in casa con loro h24 e sei giorni su sette. Per me è semplicemente inaccettabile avere uno sconosciuto che vive con me e che mi vede in mutande al mattino. Lo vivrei come un’intrusione nella mia privacy. Per carità anch’io ho una signora che mi aiuta: viene tre volte alla settimana a pulire, stirare e in caso di necessità tiene Giulio. In questo vengo vista ovunque come un’extraterrestre, fioccano le domande del tipo “ma come fai?” formulate con lo stesso genuino e ammirato stupore che potrei avere io parlando con il pilota di un A380. Un’ altra cosa a cui non mi abituerò mai è il volo Singapore-Malpensa: tredici ore di passione.

C’è qualcosa che ami pazzamente e che in Italia non c’e?

Ora, pazzamente non amo proprio nulla, diciamo che apprezzo il clima, caldo umido tutto l’anno – in pratica le stagioni non esistono – e che ti consente di vivere dodici mesi in maglietta, braghette e infradito, nonché di fare il bagno in piscina tutti i giorni. Apprezzo pure la regolarità del giorno, dodici ore di buio e dodici di luce dodici mesi all’anno. Per una come me che ha sempre sofferto l’ora legale è il massimo.

Esiste una comunità di italiani a Singapore? La frequenti?

Ci sono alcune comunità di italiani qui, all’inizio le ho frequentate alla ricerca di amicizie, ma poi mi sono sganciata. Ho tre, quattro care amiche italiane, perché parlare con qualcuno nella tua stessa lingua fa sempre piacere, ma sinceramente sia qui sia in Kuwait ho sempre preferito frequentare gli stranieri: americani, inglesi, australiani, giapponesi. Li ho spesso trovati – almeno nella mia esperienza – molto più easy e interessanti degli italiani all’estero, forse perché portano con sé altre culture, altre usanze, altre tradizioni diverse dalle nostre. E poi così almeno mi esercito con l’inglese.

Che tipo di scuola frequenta tuo figlio? Con che criterio l’hai cercata?

Giulio finisce ora il suo secondo anno in una preschool – una sorta di asilo – internazionale, la cui ricerca è stata lunga e penosa, e ha impegnato i miei primi nove mesi qui, in pratica una gravidanza. Uscivamo da una difficile – anche se brevissima – esperienza scolastica in Kuwait: a due anni l’avevo iscritto in una scuola inglese, ma onestamente per noi non è stata una scelta felice. Lui probabilmente era troppo piccolo o troppo attaccato alla mamma o non ancora pronto, fatto sta che ci è andato solo una settimana, piangendo tutta la mattina ininterrottamente fino a diventare violetto, fino a che abbiamo lasciato perdere. Io sono sempre stata dell’idea che con i bimbi si debbano rispettare i loro tempi, il concetto “bisogna insistere tanto poi si abituano” a me non è mai piaciuto, soprattutto potendoselo permettere, e io potevo perché non lavoravo. A Singapore ho visitato diciotto asili, internazionali, locali, montessoriani, steineriani, reggio emiliani, vicini a casa, lontani da casa, con inserimento, senza inserimento, con giardino, senza giardino. Alla fine con quello attuale è stato amore a prima vista, perché la prima impressione spesso per me è quella che conta. Giulio a quel punto aveva quasi tre anni e, come previsto, si è adattato nel giro di 24 ore senza psicodrammi e senza il tanto amato-odiato inserimento all’italiana. A settembre cambierà di nuovo e andrà in una big school come le chiamano qui, ossia una scuola internazionale che prende bimbi a 4 anni e li porta fino ai 14. E’ australiana, né troppo piccola né troppo grande, ragionevolmente vicina a casa, spazi luminosi, classi pulite, soleggiate e non affollate, maestre apparentemente simpatiche e affettuose: lui ovviamente è refrattario al cambiamento e ha già detto che vuole smettere di andare a scuola per sempre. Che dire, incrociamo le dita.

Come qualità della vita pensi che Singapore abbia qualcosa da insegnare a Genova o all’Italia in generale?

Singapore ha una qualità della vita altissima: è una delle città più pulite al mondo, potresti leccare per terra in metropolitana senza rischi; tra le più sicure, con trasporti meravigliosi. Tutto è estremamente organizzato, funzionale ed efficiente. La gente è educata e cortese a qualsiasi livello, i “sorry for keep you waiting” si sprecano se ti hanno fatto aspettare più di tre minuti. Dico sempre che non è Asia, è una bolla, una sorta di Svizzera d’Oriente. Qualche mese fa, in occasione della morte del loro primo ministro Lee kuan Yew, l’uomo che in trent’anni ha portato Singapore ai livelli di potenza economica attuali, è uscito un bellissimo articolo sul Corriere della Sera, che spiegava come la meritocrazia sia il punto chiave su cui tutto è basato, a Singapore. LKY (qui si vive di acronimi) aveva capito che l’unica risorsa su cui far leva era il capitale umano, creando così l’amministrazione pubblica migliore del mondo. La Costituzione di Singapore -cito testualmente- stabilisce la meritocrazia come principio fondamentale e prevede un apposito organo, la Public Service Commission, che seleziona e attrae nel servizio pubblico i migliori talenti. Al quarto anno delle scuole elementari vengono scelti i ragazzi migliori, che saranno avviati verso percorsi formativi d’eccellenza, il tutto finanziato dallo Stato. A me tutto questo sembra fantascienza, e i singaporiani ne vanno, giustamente, orgogliosissimi. Un tassista un giorno mi ha detto: qui puoi nascere ricco o povero, ma in base alle tue capacità ti verrà data almeno una possibilità nella vita. Applauso.

Potresti vivere a Singapore tutta la vita?

No, per tutta la vita assolutamente no, per tanti motivi. Primo, è troppo lontana: a me piace vivere all’estero, ma in caso di reale necessità. Un volo di tredici ore scoraggia chiunque. Secondo, è ideale per crescere bimbi piccoli ma alla lunga il sistema scolastico può essere troppo stressante, proprio per l’eccessiva competitività a cui questi ragazzini sono sottoposti. Terzo, se diventi residente qui i tuoi figli faranno il militare coatto, durata due anni, più un training di un mese ogni anno fino ai quarant’anni. Quarto, dopo un po’ che stai qui hai una strisciante sensazione di claustrofobia: alla fine si tratta pur sempre di un’isola, 60×30 km. E’ vero che se prendi un aereo vai ovunque, ma non è proprio la stessa cosa. Alla fine dell’Italia quello che mi manca di più è poter salire in macchina e andare a fare un “on the road”: in due ore sei nel Chianti, in quattro a Roma, in dieci a Parigi. Mi manca la storia europea, le chiese, i monumenti, il concetto di centro storico, le botteghe tipiche. Alla fine forse, dentro questa expat d’assalto che faccio finta di essere, in realtà batte il cuore di un contadino dell’entroterra ligure…

Riesci a trovare un buon pesto a Singapore? Oppure, grazie al clima mite e un po’ umidiccio, coltivi rigogliose piantine di basilico sul terrazzo e te lo fai da sola?

Purtroppo no, nessun buon pesto qui…o meglio, ci sono quelli da supermercato ma per una genovese doc sono un’eresia! Credo che dentro, oltre ai pinoli, ci mettano le noci e le arachidi, che il Signore li perdoni…Io purtroppo non ho balcone – stiamo al ventiseiesimo piano – però quando la malinconia si fa insistente mi preparo il cosiddetto pesto a chilometro zero, che prevede basilico malese, pinolo cinese, parmigiano e olio italiani (quelli ci sono), aglio locale. Non è proprio come il pesto della nonna, ma meglio che niente…

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Discussion about this post

  1. Drusilla ha detto:

    Bellissima intervista! Amica Fede, la tua ironia mi conquista sempre.

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