Oggi faccio azzurro
Che non si muore per amore è una grande (bella) verità.
Ma che si possa stare così male da andarci molto vicino è altrettanto vero. Soprattutto quando, dopo aver passato quasi 20 anni di vita insieme, lui dice a lei che cosa ne pensi se ci separiamo?, e magari lo fa mentre si sta lavando i denti, in una mattina qualsiasi di un giorno apparentemente normale.
Questo è quello che succede a Galla, la protagonista di “Oggi faccio azzurro”, il nuovo romanzo di Daria Bignardi (edito da Mondadori) che si ritrova da sola, non più giovane, a gestire la fine non prevista della sua storia d’amore con Doug. E lo fa in due modi: dal divano di casa, su cui trascorre le giornate osservando la magnolia dietro i vetri mentre pensa ossessivamente di gettarsi da quella stessa finestra (ma non di giorno, che ci sono i ragazzini; di mattina presto così che il portinaio possa rimettere in ordine), e andando dalla psicologa Anna Del Fante, che la incoraggia a dedicarsi all’unica attività alla quale in qualche modo tiene, cantare nel coro del carcere di San Vittore. Perché Galla (dal nome della regina dei Visigoti, Galla Placidia) ex fotomodella, stylist temporaneamente in stallo – per le ragioni del cuore di cui sopra – perde tutto nel momento in cui Doug la lascia per la sua assistente più giovane. Un clichè, forse, ma talmente doloroso da bloccare l’esistenza di una donna che, fino a quel momento, non aveva mai fatto i conti con l’assenza. E come lei, in questo diario della sofferenza costruito nella sala d’attesa della psicologa, ci sono altri due personaggi: Bianca, un’adolescente, anch’essa abbandonata dalla fidanzata, che mette la sua vita in stand by e non riesce più a uscire di casa. E Nicola, scapolo cinquantenne con una dolorosa storia alle spalle, tradito dalla sua essenza stessa di seduttore che gli fa perdere l’unica donna di cui sia mai stato innamorato.
Tre esistenze unite dalla cadenza delle loro sedute d’analisi e da un titolo evocativo, quel “ieri ha fatto azzurro” che era il modo di dire degli artigiani tedeschi del Medioevo per indicare il giorno della settimana in cui non lavoravano e potevano guardare il colore del cielo. Ma loro tre riusciranno ancora ad alzare gli occhi e ad apprezzare nuovamente la volta celeste?
“Io non ho posti dove tornare: Doug non c’è più”
Tre figure disperate e consapevoli di essere loro stessi i carnefici dello stato in cui versa il loro presente e che trovano, alla loro maniera, il modo per giustificarsi perché l’abbandono è una cosa che colpisce talmente forte da lasciare senza fiato, avvolge il corpo e rinchiude la mente in un buio devastante in cui festeggiano sensi di colpa. “Ho perso, per colpa mia, il mio grande amore”: è davvero tutto qui.
Ma se è vero che nessuno si salva da solo, rimane la forza di vivere che, nel caso di Galla, ha il ritornello di quella voce che, in un anonimo pomeriggio di dolore, comincia a parlarle. Una sorta di grillo parlante non richiesto, un espediente geniale per oltrepassare i luoghi comuni della disperazione, uno spassoso diversivo? Si scoprirà, poi, che la voce in questione è quella di Gabrielle Munter, espressionista del Novecento e compagna di Kandiskij, che l’artista tedesco aveva lasciato per una ragazza più giovane. E proprio lei, donna spregiudicata, saggia, ironica e straordinaria, anche nella sua essenza squisitamente verbale, continua a spronare la protagonista a decidersi vivere anziché lasciare che sia la vita a sopraffarla. “Trova la tua forma d’arte e smettila di lagnarti, dannazione! Sii più Galla e meno Placidia”.
C’è dell’ironia nemmeno tanto velata, ma c’è soprattutto un viaggio interiore, impossibile e realissimo al contempo, che ruota tutto intorno al dolore in un romanzo delicato e fortissimo che lascia affiorare i chiaroscuri in maniera frizzante e che stempera la malinconia del vivere con quell’ironia che, se usata a dovere, è l’ancora migliore con la quale è possibile nuovamente fare azzurro.
Testo di Ursula Beretta
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