Olive, ancora lei

Olive Kitteridge è una vecchia amica: per età anagrafica, certo, ma anche per essere stata protagonista, una decina di anni fa, di una serie di vicende frutto della meravigliosa penna di Elizabeth Strout e racchiuse nel libro omonimo premiato con il Pulitzer.

Inutile dire che mi sono innamorata perdutamente di Olive, burbera ex insegnante di matematica, coniugata con il farmacista Henry Kitteridge e con un figlio a carico, Christopher, ritratta tra i 45 e i 70 anni di età, irascibile, dalle maniere spicce e con la lingua tagliente, afflitta da una latente depressione e dal terrore di morire suicida come il padre – e delle storie che gravitavano intorno a lei, nella cornice – inventata – del piccolo paese di Crosby, nel Maine. Lei, con il suo carisma, con le sue vicende al limite del grottesco, con tutte le sue speranze e le inevitabili delusioni, è stata una compagna deliziosa che mi ha regalato ore piacevoli. E non è poco.

E ora Olive è tornata. O meglio, “Olive, ancora lei”, pubblicato da Einaudi, è il titolo del libro con il quale Elizabeth Strout riprende le fila del suo capolavoro amatissimo in tutto il mondo: tredici racconti che, idealmente, riportano Olive al centro della scena accompagnandola dalla maturità fino ai novant’anni. Un percorso temporale che ci riconsegna un’Olive vedova, ma non per questo più dolce, pronta a cedere nuovamente alle lusinghe dell’amore e a fare incontri bizzarri, sostenuta dal suo temperamento brusco e acuto, torva ma generosa insieme. 

Gesù, Olive, certo che sei una donna proprio difficile. Tu sei impossibile, maledizione, e io, cazzo, mi sono proprio innamorato. Quindi, se non ti spiace, Olive, forse potresti essere un po’ meno Olive con me, anche se questo comporta esserlo un po’ di più con gli altri. Perché io ti amo, e non abbiamo tantissimo tempo. 

Nel mezzo c’è il ritratto di una provincia americana ricca di segreti e di storie sommerse nascoste dai sorrisi di convenienza, e tutta la complessità umana descritta con una prosa scarna ma magistrale nel riportare, con pochi e immaginifici tratti, la vitalità di personaggi che al lettore sembra di toccare e che creano una costellazione narrativa sofisticata e avvincente. Grazie alla tecnica del florilegio, infatti, i racconti disegnano un ventennio di vita della protagonista, trattando amicizia e amore, problemi famigliari e vecchi fantasmi, nuclei ricostruiti e vicende lasciate aperte, così come scelte opinabili e condannate dalla comunità. Con al centro Olive e il suo secondo matrimonio, il suo complicato rapporto con il figlio, l’umiliante decadenza del corpo, lo spettro di una solitudine non più dorata e, naturalmente, il moltiplicarsi dei rimpianti.

E su tutto, tanta tantissima umanità. Non solo quella che traspare dall’anziana donna grazie alle maniere gentili -e colorate – di una badante somala o alla tenerezza di un sentimento che pareva non dovesse più tornare; ma anche nei singoli gesti di una giovane che va a trovare in casa di riposo una vecchia amica depressa o nelle piccole felicità, nelle attese, nei sogni e nelle speranze che gli uomini e le donne imperfetti di questi racconti le trasmettono e che lei riporta, con un’empatia maggiore di quella a cui ci aveva abituati, più attenta alle sfumature e alle zone d’ombra dell’animo umano.

E capì che non bisogna mai prenderla alla leggera, la profonda solitudine della gente, che le scelte fatte per arginare quella voragine di buio esigevano molto rispetto. 

Nessun autore contemporaneo, a mio avviso forse solo Alice Munro, sa raccontare l’anima in maniera così delicata, sospendendo ogni forma di giudizio e lasciando semplicemente a chi legge la possibilità di confrontarsi con le fragilità e le imperfezioni dei personaggi di cui legge le vicende. E tutto questo per merito di uno stile cristallino, toccato da veri e propri attimi di grazia, che illuminano dolori e colpe trasmettendo un rasserenante messaggio di speranza.

C’è la vita in ogni parola, c’è proprio tutta la bellezza della vita. Perché, come sembra suggerire Olive, ci sarà anche la morte ad averla vinta su di noi ma l’infinita bellezza del narrare è un atto di resistenza incredibile.

Testo di Ursula Beretta

 

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