Open

Ho appena finito di leggere Open, l’autobiografia di Andre Agassi. Non un’opera di chissà quale valore letterario (e non credo comunque che fosse questo l’intento dell’autore) ma per me fonte di coinvolgimento emotivo, spunti di riflessione e pure qualche lacrimuccia.
…mica male per un non-capolavoro letterario!
Il libro mi ha fatto riflettere sul tormento interiore di Agassi bambino che viene praticamente costretto dal papà a giocare a tennis fino a diventare un professionista quasi contro la sua volontà: la classica situazione “padre ex-sportivo fallito che ripone nel figlio tutte le sue speranze di riscatto”. Perseguita il figlio ogni giorno con un allenamento reso ancora più massacrante dall’aiuto di una macchina sputapalle di sua fabbricazione. Il bambino, in quanto tale, non riesce ad opporsi alla volontà del padre, non riesce a esprimere apertamente il suo rifiuto verso quello sport e, quasi passivamente, asseconda il genitore e diventa un grande campione suo malgrado.

Agassi confessa di odiare il tennis con tutte le sue forze ma proprio attraverso il tennis – ironia della sorte – trova se stesso, il senso della sua vita, l’amore (una Steffi Graf inedita), una famiglia di elezione che lo ama forse più di quella vera.
Quell’odio che dice di avere verso il tennis Agassi l’avrebbe avuto se il suo papà non fosse stato così aggressivo nell’allenarlo e nel darlo in pasto a coach più interessati ai guadagni che quel bambino poteva portargli che al suo benessere psicologico?
Se il papà lo avesse accompagnato lungo tutte le fasi del percorso atletico, dall’infanzia all’età adulta, Agassi avrebbe avuto una carriera più solida e lineare di quella che ha comunque avuto in quanto fuoriclasse?
Come mi sarei comportata io al posto del papà di Andre Agassi?
Innanzitutto se scoprissi che i miei figli hanno delle potenzialità in uno sport come il tennis farei salti alti così. Ammetto di essere la classica appassionata che però è sempre stata una schiappa senza speranza: zero talento, zero coordinazione, tutto cuore.

Ho giocato per anni (rimanendo sempre al livello di schiappa), ho costretto i miei fidanzati decisamente più dotati di me a palleggiare per ore (Albi, se mi leggi, sì, sto parlando di te), cosa a cui si prestavano non so se per amore o per pietà. Un’estate di qualche anno fa sono perfino andata in Florida alla corte di Nick Bollettieri (come dilettante, ovviamente…) e in quella distesa di campi da tennis, colpendo centinaia di palline al giorno per 8 ore filate, sudata fradicia 24 ore su 24 per il caldo umido tropicale, massacrata dalla fatica fisica, ho trovato la mia dimensione: realizzavo il sogno di qualsiasi appassionato di uno sport che ha l’occasione di praticare l’oggetto della sua passione a oltranza.

Ecco, io vorrei che i miei figli fossero mossi da una passione simile. Se poi avessero talento li incoraggerei alla disciplina mantenendo però sempre un approccio ludico. Se non avessero talento li incoraggerei comunque, senza mettergli pressioni, perché si gustassero ogni momento dell’attività e tutto il suo contorno: la condivisione di una passione, il confronto con gli altri, il senso di una vittoria e di una sconfitta, il metabolizzare le vittorie e le sconfitte, la concentrazione e la dedizione.
Insomma, sarei una mamma-tigre oppure no? Credo proprio di no. Ma allo stesso tempo non permetterei ai miei figli di mollare qualcosa perché per un capriccio banale non gli va più di farla/per seguire l’amico in un’attività più divertente/ per una delusione sul campo.
E di sicuro, se scoprissi di avere in casa un campione in erba col cavolo che abbandonerei mio figlio in una qualunque accademia, fosse anche la migliore del mondo, come fece il papà di Andre Agassi quando lo scaricò come un pacco all’accademia di Nick Bollettieri che non aveva neanche 14 anni, a migliaia di chilometri da casa, in balia di sé stesso e delle sue insicurezze di bambino. Non lo mollerei un attimo, lo seguirei passo passo, soffrirei con lui e gioirei con lui.
Un po’ come le mamme dello spot di Procter&Gamble.

 

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