Sembrava bellezza

Sembrava bellezza, e non potrebbe essere diversamente con Teresa Ciabatti, che ha racchiuso il canto del cigno di una cinica scrittrice in età matura in un romanzo emotivamente denso e percorso da una scrittura nervosa, feroce, sempre implacabile.

Teresa Ciabatti fa Teresa Ciabatti in Sembrava bellezza, appunto, (edito da Mondadori) in cui non sono previsti sconti o indulgenze con chi non è stato baciato dagli dei fin dalla nascita e che si trova a rincorrere avanzi di normalità, sempre in affanno, continuamente in difetto. Ma non è detto che gli altri, i fortunati, siano esenti da dolori o fatiche. Anzi. Però bisogna leggerlo il libro della Ciabatti e non lasciarsi trarre in inganno dalle prime, dolorose pagine di una narrazione al femminile in cui si incrociano madri, figlie, amiche e sorelle distese – e nemmeno troppo comodamente –  lungo un arco temporale che rende il passato presente e soprattutto utilizza il fattore tempo per farsi travolgere dalla sua impietosa rapidità. Ma anche per trovare risposte che sembrano sempre più perdoni e salvare un’adolescenza che ha sempre avuto l’aspetto di un buco nero. 

Se la vita va male a noi, vada male anche agli altri. Fosse già accaduta Columbine, fosse già esistito un capostipite, sarebbe bastato per dare la stura a noi, frustrate, in attesa di esplodere, dateci una pistola, una bomba”.

L’inizio è di quelli potenti, sostenuto da uno sguardo avido su un reale in cui c’è poco spazio per la tenerezza e la comprensione della debolezza umana, soprattutto quando questa è accompagnata da un’estetica non proprio luminosa. Lo sa la scrittrice di successo, che dà inizio al suo peana andando indietro con la memoria a quando, giovane e sgraziata, divideva la sua condizione di inferiorità con l’amica Federica. Due ragazze anonime, che non erano contemplate ai diciottesimi dei compagni di classe e restavano ai margini a costruirsi alternative poco consolatorie. Come possono essere terribili i ragazzi, e più ancora come può essere feroce una coscienza dura capace di mettere alla gogna i difetti e non salvare nulla, tanto meno concedere una lenta remissione. Una coscienza che, come un grillo parlante, sta sempre a ricordare gli sbagli passati e trasforma tutto in un bagaglio ingombrante da portare fedelmente sulle spalle come un veleno in una bottiglia dal tappo sempre aperto.

La protagonista, continuamente in bilico tra risentimento e desiderio di rivalsa, alla ricerca continua del rapporto con una figlia che ha scelto di starle lontano e poco attratta da un catalogo di uomini usati come mezzo per soddisfare rapidi appetiti sessuali, ritorna dolorosamente al presente quando ritrova la stessa amica del liceo e, soprattutto, la sorella bellissima, Livia, che un incidente ha cristallizzato per sempre in una cinquantenne inconsapevole di sé ma ancora racchiusa in un involucro meraviglioso.  Sono sovrapposizioni temporali continue quelle in cui si dispiega una narrazione fatta di attimi fugaci e di pezzi rotti, in cui le ragazze scompaiono e i maschi fanno solo da inutile cornice; dove la salvezza (ma esiste?) può essere ravvisata in quella bellezza che, forse, può aiutare a riparare. E a ripararsi.

E a farlo, nel libro della Ciabatti, sono le parole che offrono uno squarcio, che al netto della scarsa empatia della voce narrante nei suoi stessi riguardi, possono, con il tempo, regalare un salvacondotto. O, per lo meno, una giustificazione facendo fuori, una volta per tutte, gli spauracchi dell’inadeguatezza.

Quando sarebbe svanito il ricordo di me sulla scalinata della villa cinquecentesca, di me in abito lungo, ad accogliere gli invitati per festeggiare i diciott’anni, e non arriva nessuno, quando si sarebbe rimarginata la ferita?”.

Testo di Ursula Beretta

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