Un ragazzo sulla soglia
Anne Tyler è stata per lungo tempo la mia comfort zone. Lei, con la linearità delle sue trame, con quella provincia attraversata in maniera apparentemente superficiale, con i suoi personaggi essenziali, al limite del banale, ma poi accesi da scintille di vita e cambiati forse per sempre. Ho sempre saputo che cosa avrei trovato in un libro della Tyler. E che mi sarebbe piaciuto.
Non è andato diversamente con “Un ragazzo sulla soglia”, il suo ventitreesimo romanzo pubblicato da Guanda, che mi si è appiccicato addosso come succede poche volte di questi tempi (al netto del clima estivo, naturalmente).
“Viene da chiedersi cosa passi per la testa a uno come Micah Mortimer. Vive solo, se ne sta per conto proprio, la sua routine è scolpita nella pietra”
Basterebbe solo questo incipit fulminante per darmi ragione. E cominciare a chiedersi davvero chi sia questo antieroe o parente stretto degli inetti di pirandelliana memoria che si lascia vivere in maniera ordinaria e al riparo da ogni scossone (come ogni personaggio tyleriano che si rispetti), certo che la sua routine programmata al millimetro lo possa proteggere dagli scivoloni della vita. Né troppo né niente. Un giusto mezzo che, lungi dall’essere virtù, forse è solo noia.
Ma potrebbe avere ragione Micah a rendersi protagonista di un’esistenza scandita in maniera tanto certosina: titolare part time di una società di manutenzione di computer a domicilio, vanta una certa nomea nell’ambiente di riferimento per aver scritto un manuale dedicato ai principianti del pc e, a tempo perso è custode del palazzo di cui occupa, proprio in virtù di questo suo ruolo, un buio appartamento sottoscala. Fissato al limite del maniacale con l’ordine (forse a causa di una famiglia eccessivamente chiassosa e disordinata), Micah ha fatto delle rigide abitudini che governano le sue settimane una coperta di Linus inscalfibile, che lo tiene al riparo da ogni imprevisto e gli assicura una bramata aurea mediocritas. Un quadro bigio, dove la città di Baltimora fa da silente (e fredda) cartolina e in cui l’amore ha il volto bovino di Cass, timida maestra elementare con la quale l’uomo ha una relazione, ovviamente, piatta.
“Il problema delle fidanzate, pensò Micah, è che ciascuna ti porta via qualcosa. Dici addio al tuo primo grande amore e passi alla ragazza successiva, ma scopri di avere meno da darle. Perché un frammento di te è scomparso; non sei così pienamente presente nella relazione”
Ineccepibile no? Così come la capacità della Tyler di diventare tutt’uno con i suoi personaggi, in una versione riveduta e corretta di Flaubert (ma senza il corollario di tragicità che il suo bovarismo si portava, inevitabilmente, dietro). Intorno a lui, che tutti si aspettavano fosse l’”astro nascente” della famiglia e si era ritrovato invece a mischiare il chili con il sugo di pomodoro più economico, c’è tutta quell’America di mezzo, fatta di una classe media con poche pretese e ancora meno speranze nel futuro, che conta sulle piccole cose e fa della tranquillità un’arma con la quale rispondere a uno scenario nel quale non sempre si riconosce.
Ma come sempre succede nei romanzi di Anne Tyler, l’evento inatteso che spariglia il tutto è dietro l’angolo, anzi, è sulla soglia della casa di Micah e ha le fattezze di Brik, figlio del suo primo amore del college, scappato da un’esistenza viziata e rifugiatosi da lui, che crede essere il suo vero padre. Brick è la leva imprevista che costringe il protagonista a un cambio di prospettiva e, forse, a una riflessione più profonda del tutto. In primis del suo rapporto con le persone.
“A volte quando aveva a che fare con le persone aveva la sensazione di usare una di quelle macchinette con il gancio dei luna park, quelle con cui bisogna pescare un premio, ma i comandi sono troppo complicati da maneggiare e la distanza eccessiva”.
Un romanzo intenso, ironico e delicatissimo. Un romanzo di Anne Tyler.
Testo di Ursula Beretta
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