Di brevi vacanze e libri da portare con sé
Libri da ponte o un ponte di libri? Comunque sia, ecco qui i libri (al ponte ci pensiamo poi).
“Ho sempre vissuto solo per farvi crescere. Certo, ho fatto anche degli sbagli ma sempre per amore. Troppo amore”. Una madre, ingombrante e decisa a vivere a modo suo in un’Italia, quella degli ultimi decenni del secolo scorso, attraversata da poche, potenti luci e da un bagaglio di fatti destinati a cambiarne la faccia. Quella madre, Vincenza, che da Milano si trasferisce a Roma con le due figlie piccole, Luce e Vita, che educa a modo suo, coltivando incertezze, sopraffatta dall’ansia di amore, decisa a non perdersi nulla anche a costo di capricci, di idee bizzarre, di rapporti al limite del masochismo ma pure di una profondissima cultura. Perché sono i libri, alla fine, quelli che salvano. Come “Gli anni di Luce” di Zita Dazzi (Piemme), un romanzo di formazione tutto al femminile in cui Luce, ribelle, indipendente, sempre pronta a combattere le sue personali battaglie, si scontra con la madre e addolcisce la fatica del crescere imparando a fare i conti con il proprio passato. Sono pagine in cui è facile ritrovarsi e perdersi e ritornarci anche una volta che si è terminata la lettura.
Chi di conti, fuor di metafora, ne ha fatti parecchi è Elena Ghiretti, una super host, come vuole il gergo di Airbnb, che ha trasformato il suo appartamento milanese in un rifugio per amanti della sharing economy. “Hostaggio” (Accénto) è la cronaca semiseria di un decennio di affitti brevi sotto l’egida del colosso americano e, al contempo, è un saggio che spalanca la porta, è proprio il caso di dirlo, su quello che è a tutti gli effetti uno dei fenomeni del nuovo millennio. Spassosissimo e terribile, nella giungla di personaggi che popolano questo universo (e che ne fanno un loro personalissimo uso), il catalogo di ospiti tratteggiato nelle pagine del libro, una sorta di barnum poco ridanciano, si alterna ai punti di vista dei pionieri di Airbnb e alle riflessioni dell’autrice. Il risultato è una sorta di manuale ibrido in cui la sopravvivenza, al netto di tutto, è decisamente l’obiettivo finale.
Pare che il leitmotiv di queste righe sia survivre, a maggior ragione quando il fine ultimo sia riuscirci nel migliore dei modi. E, perché no, magari senza farsi scoprire. Non sono pazza, ma nemmeno Valentine de Lestrange lo è, ultima di una stirpe di cleptomani al femminile che di questo vezzo si sono fatte un vanto e che Florence Noiville, nel suo “La cleptomane” (edito da Garzanti), rende la sua eroina accompagnandola in scorribande illuminate da una sana dose di sarcasmo. E il risultato è davvero irresistibile. Fino a quando, ovviamente, si potrà resistere. La baldanzosa rincorsa al soddisfacimento malato di un impulso diventa, al contrario, il pretesto per indagare un puzzle di rapporti che, di base, molto sani proprio non sono. Ed è divertente, in questa sciarada su e giù per Parigi, scoprire per chi scegliere di fare il tifo.
È difficile, invece, tifare per Fuyuko, scialba giovane donna giapponese che corregge bozze ne “Gli amanti della notte” di Mieko Kawakami (Edizioni e/o) e che si accorge, dalla bolla nella quale si auto esilia, di scomparire giorno dopo giorno. Può essere il saké ad aiutarla a uscire dal suo guscio, nemmeno troppo accogliente? Il nuovo romanzo della godibilissima autrice di “Seni e Uova” è un sunto di stile giapponese, un uramaki di suggestioni in cui la mediocrità è indagata con maestria e lascia quel senso di disillusione dal quale, però, è lecito allontanarsi.
Non riescono a stare troppo lontani, seppure idealmente, i protagonisti senza nome de “L’amore inutile” di Gianfranco Di Fiore (Wojtek Edizioni), il racconto intimo e crudele della storia d’amore dalla sola dimensione vocale tra due persone diversissime tra loro ma in grado comunque di completarsi. Lei, giovane, ossessionata dal suo aspetto fisico e arrabbiata con gli uomini, parla solo al telefono con lui, fotografo capace di confortarla e di farsi carico del suo dolore. Non si vedono ma si cercano; provano a viversi ma la realtà – spaventosa, a tratti onirica, feroce, quasi psichedelica – è più forte della loro ossessione. Il loro mondo è uno spazio dai confini di plastica, che li respinge pur facendo intravedere una qualche possibilità di redenzione; il bisogno che hanno di trovare l’uno nell’altro uno specchio è una condanna dalla quale faticano a liberarsi. Ma alla fine cos’è quello che vogliono? Una lettura densa, a tratti forse troppo, in cui la lingua pare piegarsi a tutte le più complesse sfumature dell’animo umano.
Una decina di anni fa, in un momento particolarmente complicato della mia vita, ebbi la fortuna di imbattermi in “L’amore è sopravvalutato”, una serie di irresistibili racconti firmati da quella Brigitte Giraud che oggi ha affidato a un romanzo altrettanto trascinante, ma per diverse ragioni, la sua personalissima tragedia. Ma non abbiate paura, “Vivi veloce” (Guanda) ha beneficiato di una sensibile distanza temporale dagli eventi raccontati per essere sì, autentico e toccante, ma senza per questo trasformare il dolore in un leitmotiv. Merito è senza dubbio della bravura di un’autrice che ammaestra la tristezza con la precisione chirurgica della sua scrittura e di una ricostruzione al limite del patologico del corso degli eventi che viene scarnificato alla ricerca della falla. Che c’è e si sarebbe potuta evitare, se. È proprio il pericoloso gioco delle possibilità a costituire l’architettura di una narrazione toccante ancorché estremamente razionale che rimane una dichiarazione d’amore senza tempo a chi, di fatto, non se n’è mai andato.
Testo di Ursula Beretta
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